Emergenza

Di Andrea Fianco – Lessico della Nuova Scuola

L’abbiamo vissuta tutti. L’abbiamo vista e l’abbiamo sentita scorrere nelle vene, vibrare nel corpo e rumoreggiare nella testa. Abbiamo provato paura, ansia, angoscia, disorientamento e senso di smarrimento. Siamo stati tutti investiti e sopraffatti da uno stato di emergenza. Le sirene delle ambulanze, il bollettino della protezione civile, le immagini dei reparti di terapia intensiva, i comunicati a reti unificate, le strade vuote, le tante finestre accese affacciate su città mute, la polizia per le strade, le autocertificazioni, i negozi con le serrande abbassate e le aule delle scuole vuote. Un paesaggio distopico ed estraniante.

I bambini e i ragazzi sono rimasti sospesi nelle loro camerette e appesi ai loro dispositivi: l’unico canale di comunicazione con il mondo esterno, oltre che comoda via di fuga per tenere a bada agitazioni interne. E pensare che, poco prima di tutto questo, si parlava solo dei rischi associati all’uso e abuso della tecnologia per i più giovani. Invece, questo stato di allarme, ha trasformato gli schermi in porte dimensionali salvifiche che, nel distanziamento e isolamento sociale, hanno consentito ai ragazzi di frequentare la scuola, mantenere le relazioni, divertirsi con i videogiochi, tenersi informati, vedere film, ascoltare musica, navigare sui social. Lo stesso fenomeno ha interessato anche gli adulti, per i quali, ad una condizione di semi-arresto domiciliare, è corrisposta una fuga di massa verso la nuova terra promessa in ambiente digitale. Durante il lockdown, gran parte delle attività quotidiane si svolgevano interfacciandosi con un rettangolo illuminato, piatto e bidimensionale. Lo smartphone, il tablet o il PC sono diventati il nostro confine di contatto con il mondo, le sedie al tavolo per fare riunioni, i banchi di scuola per assistere ad una lezione e per quanto mi riguarda anche un nuovo setting per continuare a seguire i pazienti. Incredibile scoprire quante cose si possono fare standosene comodamente a casa propria. Una migrazione collettiva ha improvvisamente inondato e colonizzato le nuove terre del regno bit-dimensionale: qui le persone diventano ologrammi o figurine animate dalle webcam, ma il corpo rimane distanziato, spezzato, separato e recluso. Abbiamo assistito ad una programmazione continua di webinar, dibattiti, riunioni, dirette sui social e seminari online su ogni argomento: un opinionismo spinto e costante arricchito da video, immagini, storie, testimonianze, proteste. Le principali piattaforme digitali hanno erogato servizi gratuiti, aperto alla possibilità di vedere musei, concerti, film. Il mondo a domicilio, in uno schermo. Il confinamento del nostro corpo tra le mura domestiche ha intensificato l’esplorazione di esperienze digitalmente modificate. La paura di perdere il proprio posto nel mondo, unita al desiderio di affermare la propria presenza sociale e di mantenere il contatto umano, ha spinto un gran numero di persone ad occupare spazi di vita alternativi. Non è la stessa cosa, ma forse si può meglio capire da questa esperienza quanto sia emergente e urgente per certe persone migrare in altre terre (reali) per trovare condizioni di vita più dignitose e scappare dalla guerra o dalla povertà. Quando siamo in pericolo e non troviamo soluzioni valide per gestire le difficoltà e riuscire a sopravvivere, non possiamo che volgere lo sguardo altrove nella speranza di trovare la nostra dimensione di vita.

Oltre allo stato di segregazione domiciliare e alla fuga nella tecnologia, questa quarantena ha costretto tutti ad una convivenza costante e ravvicinata. Per alcuni è stata un’occasione per ritrovarsi e godersi questi momenti di vicinanza estrema, per altri, invece, tutto questo ha innescato dinamiche relazionali esplosive che già in precedenza erano sul punto di saltare. Alcune famiglie hanno ritrovato un tempo umano per stare insieme, per rinforzare l’affetto e la conoscenza reciproca. I figli hanno potuto godersi i genitori, finalmente a casa e meno impegnati nei soliti ritmi frenetici. Altri ragazzi in età adolescenziale hanno invece sofferto questo stato di obbligata e costante convivenza, al punto che molti di loro si sono barricati nelle loro camerette come unico modo per soddisfare il loro naturale bisogno di individuarsi e separarsi. Altre persone si sono invece ritrovate in casa da sole. Nelle situazioni più vulnerabili il disagio si è intensificato e la quarantena si è trasformata in un incubo insostenibile. Poi ci sono gli ultimi, i più deboli, quelli che sono rimasti dov’erano prima, ovvero per strada, sotto un portico o sopra una panchina o più semplicemente al lavoro, perché alcuni, e non sono pochi, hanno dovuto continuare a produrre esponendosi al rischio contagio. Per non parlare di chi si è ritrovato senza lavoro e senza lo stipendio per pagare l’affitto e fare la spesa. Per questi, va detto, il mondo del volontariato non si è fermato e, anzi, in molti casi ha incrementato i suoi servizi, proprio per compensare il vuoto che questa società spesso provoca nelle vite invisibili di chi non ha diritto al lavoro, alla salute e all’istruzione.

L’emergenza ha scattato un’istantanea, nitida e cruda, della nostra società svelando le disuguaglianze e le varie forme di ingiustizia sociale. L’emergenza ci mette a nudo e ci dice quello che siamo, nel bene e nel male, come individui, come coppie, come famiglie, come istituzioni, come scuole, come società, come servizi, come comunità, come cultura. Siamo stati colti di sorpresa e i nostri punti deboli, oltre che i punti di forza, sono stati scoperti e resi visibili.

Il termine emergenza non ha però solo un’accezione negativa, anche se il suo campo semantico è sostanzialmente contornato dal rosso, inteso come allarme, e dal nero, inteso come angoscia della morte. Emergenza, se ci soffermiamo ad analizzare questa parola, è un ibrido tra emersione e urgenza, come se si trattasse di una condizione che porta improvvisamente e velocemente a galla tutto ciò che prima rimaneva sommerso. Un po’ come quella grande isola di plastica nell’oceano che porta in superfice i nostri rifiuti, ricordandoci quanto siamo irrispettosi e violenti con il nostro pianeta. Accade quindi che ciò che prima era in superfice vada sullo sfondo e al contrario ciò che stava più sommerso e non visibile ora emerga e si veda. L’emergenza provoca una sovversione totale e reale delle nostre esistenze. I bisogni personali e relazionali si riposizionano in una scala di priorità che viene quasi capovolta e sicuramente stravolta. Ricordo, per esempio, quanto mi sembrasse strano in quei primi momenti di lockdown vedere certe pubblicità televisive: mi parlavano di un mondo che in quel momento era per me senza alcun senso, superfluo. Quando ci si sente in pericolo, il consumismo torna ad essere totalmente inutile alla sopravvivenza, soprattutto quando quel determinato prodotto (per esempio l’ultimo modello di un’automobile) non è per nulla essenziale per la tua vita. Anzi forse, proprio quel prodotto, ti ricorda quanto questa società nella sua ingenua indifferenza abbia perso il contatto con i bisogni più essenziali e autentici. Nel vivere l’isolamento sociale provocato dall’emergenza, si ritrova un improvviso bisogno di contatto umano associato ad una profonda angoscia di separazione. Lo sfondo emotivo prima ben conservato nella normale quotidianità del tutto va bene, una volta sollecitato dalla paura che tutto possa andare male, emerge urgentemente a farsi sentire rendendo evidente quello che si è e quello che si ha. L’emergenza porta consapevolezza inducendo l’individuo ad un processo di “immergenza”, inteso come l’urgenza di immergersi dentro di sé. In questo recinto elettrificato che costringe e contiene, impedendo alla persona di essere e fare come prima, risulta inevitabile fermarsi e stare in contatto con se stessi. Qualcuno si è proprio ritirato dentro di sé, ritrovando il proprio mondo interiore, le paure, il senso del qui e ora, la mancanza di una prospettiva, l’impotenza di stare nel terreno friabile dell’incertezza. L’immergenza ha imposto un ritmo diverso, quello dell’esistenza, del senso della vita e della morte, dell’importanza delle relazioni affettive e della paura di perderle. Lo sanno bene tutte quelle persone che nella vita si sono trovate ad affrontare una malattia, un trauma, un lutto, un abbandono, un abuso o un’improvvisa interruzione e sospensione del proprio tempo e del proprio equilibrio esistenziale.  Queste persone si sono immerse e talvolta anche perse in se stesse per riuscire a ritrovare gradualmente e attraverso un processo di resilienza un nuovo equilibrio. Altri, invece, hanno evitato questo processo introspettivo ricorrendo a forme anestetiche o a comportamenti compensativi che sapessero riempire il vuoto altrimenti insostenibile. Del resto, anche l’evitamento e la dissociazione sono reazioni fisiologiche ad uno stato di emergenza come fossero una difesa dalla sofferenza: se non sento, non soffro. Tuttavia, il non sentire dolore non consente di attivarsi per andare a curare la causa che lo provoca quindi l’evitamento è un sollievo temporaneo ma non promuove un processo efficace di resilienza e di crescita.

Inaspettatamente, i ragazzi preadolescenti e adolescenti hanno saputo cogliere tanti stimoli di riflessione su se stessi, sulle loro relazioni e più in generale sul mondo e su come funziona o non funziona. Nel confrontarmi con genitori e figli in questo periodo ho potuto ascoltare diverse testimonianze. Una mamma si è piacevolmente stupita di come i figli abbiano affrontato tutto questo periodo con responsabilità, saggezza e flessibilità aggiungendo che spesso sono gli adulti a proiettare su di loro paure e ansie. L’emergenza rivela pertanto a se stessi e agli altri la presenza di risorse prima sconosciute. Chi sembrava forte appare più debole e chi invece si mostrava fragile esprime più forza e sicurezza. Una ragazza di 13 anni mi ha riferito di aver scoperto solo in questi mesi di quanto potesse essere capace di mantenere la calma, mentre prima si percepiva più agitata e incompetente su questo frangente. Molti ragazzi hanno condiviso riflessioni sull’ecologia, sull’importanza della salute, sul valore delle relazioni familiari e amicali. A volte i limiti sono generativi e oltre alle normali paure, aprono sguardi, introspezioni, scenari, fantasie, progetti, sogni, come se l’obbligo di gestire un orizzonte limitante inducesse ad attivare risorse nuove che aprono possibilità. Viene alla mente “questa siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” oltre alla quale Leopardi immagina il suo infinito. Il non poter uscire, il non poter fare e quindi il non poter essere ciò che si è abituati ad essere, induce a fare passi importanti per la crescita. L’adattamento creativo che ne deriva porta l’individuo a sperimentarsi e a sperimentare nuove frontiere del proprio modo di essere e di stare nel mondo. Ma, soprattutto, quando mancano i soliti riferimenti esterni si può imparare a trovarli dentro se stessi scoprendosi più forti e indipendenti. Questo processo immergente, quando attraversato e vissuto profondamente, non può che far emergere risorse interiori ed essere quindi portatore di trasformazioni evolutive e generative. In tutta questa storia molti ragazzi, ma anche molti adulti, hanno potuto acquisire una maggiore sensibilità verso se stessi e verso l’altro, hanno potuto rivalutare l’importanza delle piccole cose e di quanto la semplicità del vivere quotidiano sia un elemento strutturale, rassicurante e portante nella vita personale. La stessa scuola è passata, per alcuni ragazzi, dall’essere il luogo più odiato ad essere il luogo di cui si sente nostalgia, non tanto per l’aspetto didattico ma soprattutto per il contatto umano, per la presenza dei corpi e per quelle abitudini che scandiscono la vita e contengono i vissuti e i pensieri. A questi ragazzi è mancata la scuola come contesto relazionale. Le ritualità quotidiane associate alla frequenza scolastica, così come lo svolgimento di attività sportive e del tempo libero, sono importanti contenitori identitari che promuovono e sostengono lo sviluppo del sé. L’assenza di tutto questo ha reso ancora più evidente quanto siano importanti certe dimensioni di vita quotidiana.

L’emergenza ci ha anche un po’ riportati con i piedi per terra. L’egocentrismo e il narcisismo che permeano il nostro tessuto sociale e culturale hanno subito un duro contraccolpo. Non siamo più speciali e onnipotenti e, soprattutto, da soli non ce la possiamo fare. Dobbiamo sintonizzarci e armonizzarci con gli altri se vogliamo vivere e sopravvivere. Senza antidoto al virus ci ritroviamo impotenti, inermi e questo ci spiazza, perché siamo viziati dal pensiero onnipotente secondo cui nulla si deve fermare, tutto è curabile e tutto è risolvibile. Per vivere e crescere abbiamo bisogno di un ambiente che ci nutra (per questo dovremmo imparare a proteggerlo) e soprattutto di relazioni, di contatto, di appartenenza sociale (per questo dovremmo dedicare più tempo a sviluppare coesione sociale e mutuo appoggio). La qualità dell’interconnessione sociale rappresenta un centro gravitazionale fondamentale per la qualità della nostra vita e la possibilità di aiutarci reciprocamente sostiene la nostra esistenza. Ci siamo accorti che senza un buon sistema sanitario siamo a rischio, ci siamo accorti che senza il conforto e la vicinanza di amici e parenti soffriamo. Allo stesso modo anche le agenzie educative come la famiglia e la scuola si sono rese conto di quanto sia importante la qualità della loro presenza nella vita di bambini e ragazzi, e di quanto sia fondamentale riferirsi e appartenere ad una comunità. Credo che sia proprio questa la risorsa che dovremmo consolidare e continuare a tenere presente, rendendo strutturale ciò che è stato emergenziale in questo periodo. Questo trauma collettivo ha portato con sé messaggi importanti che abbiamo la responsabilità di custodire per ristrutturare il nostro modo di stare nel mondo. L’emergenza ci ha ricordato di quanto sia importante la solidarietà, il mutuo aiuto, l’ascolto reciproco, la presenza dell’altro, l’ascolto dell’altro e tutto ciò che favorisce il prendersi cura, l’interconnessione, la collaborazione e la crescita collettiva. Se l’anestesia desensibilizza, l’emergenza sensibilizza ovvero ci rende più sensibili a noi stessi e agli altri. Ben venga quindi questo lato buono dell’emergenza. Sul fronte scolastico questa esperienza potrebbe essere una suggestione preziosa per rifondare la qualità delle relazioni tra gli attori che operano nei contesti educativi. Si tratta di una grande occasione per l’intera comunità e la scuola potrebbe tornare ad occupare un ruolo centrale in questo processo evolutivo. Inoltre, la maturità dimostrata dai bambini e i ragazzi potrebbe indicarci metodologie pedagogiche in grado di valorizzare maggiormente il loro protagonismo rendendoli più attivi e partecipi nelle attività di apprendimento.

Non lasciamo che tutto torni come prima. Non permettiamo che tutte le risorse emerse affondino tornando nell’invisibilità e riportandoci ai soliti meccanismi anestetizzanti e perversi che ammorbano il vivere quotidiano. Insomma, teniamo sempre con noi un po’ di emergenza, così che possiamo coltivare la nostra immergenza, sensibilizzare la nostra consapevolezza e favorire il contatto con i nostri bisogni più autentici. Per continuare a crescere come persone e come comunità, ma soprattutto per promuovere la salute, il benessere e la crescita di quelli che verranno.